15 – IL MATRIMONIO DI MARIA E GIUSEPPE
Premessa “forse” utile
Il tema del matrimonio di Maria con Giuseppe, tenuto conto che i due “Sposi” rientrano nell’ordine dell’unione ipostatica, troverebbe il suo luogo naturale nel trattato dell’Incarnazione. Se così fosse, la teologia della famiglia, e quella del matrimonio che la costituisce, ne avrebbe ogni vantaggio. L’attenzione dedicata dai teologi in questi ultimi anni al tema della “relazione” non ha dimostrato nessun interesse ad approfondire quello specifico di “Maria persona in relazione” sotto l’aspetto del suo matrimonio, trascurando la sua importanza non solo dal punto di vista teologico, ma anche da quello biblico. Quali le possibili conseguenze?
.
Ecco quanto si legge in un’autorevole Rivista mariana:
“Le stesse relazioni umane che la vita ha costruito intorno a Maria sono contrassegnate dal contrapasso della solitudine, del dolore, del limite. In primo luogo, la relazione con Giuseppe, suo marito, con il quale ha condiviso quella che per gli uomini e le donne creati a immagine e somiglianza di Dio è l’altra massima esperienza della comunione tra due persone, il matrimonio, sacramento della creazione e dell’Alleanza. Anche questa esperienza Maria l’ha vissuta sotto il segno dell”inferno’ della solitudine. Dio, infatti, ha sconvolto i loro progetti familiari e il ‘dubbio’ di Giuseppe ha avvilito la gioia naturale della prima maternità. Quel dubbio, poi, è diventato l’inferno anche per Giuseppe: la scelta di Maria e di Dio, che lo ha coinvolto escludendolo e che lo ha consumato santificandolo, lo ha confinato nel ruolo di custode della sua verginità di moglie; un ruolo che ha accettato certo per la sua fede nella parola di Dio annunziatagli dal messaggero celeste (secondo Matteo), o forse per il suo amore senza riserve verso Maria, bellissima fanciulla di Nazaret (secondo Pasquale Festa Campanile nel suo Per amore, solo per amore), o forse perché ha sperato e invocato il Signore fino alla morte affinché il rapporto con Maria, sua sposa, tornasse ad essere ‘normale’: ma che accettato, in ogni caso, solo nella straziante lotta interiore con la sua solitudine. I poeti, come sempre, descrivono con più coraggio ciò che il pudore dei teologi tace. Così, ad esempio, l’inferno di Giuseppe nella sua personale lotta con l’angelo è stato reso da Rainer Maria Rilke: E l’angelo parlava, dandosi da fare / attorno all’uomo, e lui serrava i pugni: / Ma tu non vedi, no, che in ogni piega, / fredda è lei come divina alba…’.
Vogliamo allargare l’orizzonte e volare più in alto?
La libertà del dono “perduta”
L’espressione “nato da donna” (Gal 4,4), usata da Paolo nella grande affermazione che “nella pienezza dei tempi Dio mandò il suo Figlio per riscattare coloro che erano sotto la legge e perché ricevessero l’adozione a figli” (v.5), non intende presentare Maria come una ragazza-madre, pur con l’onore della verginità.
Scelta per evidenziare la vera umanità di Gesù, strumento della divinità per attuare il nostro “riscatto” e la nostra “filiazione divina”, tale formula non esclude di per sé la presenza degli altri elementi concreti, richiesti dalla verità dell’Incarnazione e a noi noti attraverso la predicazione apostolica, testimoniata dai Vangeli. Questi riferiscono, infatti, che il concepimento di Gesù è sì avvenuto in modo verginale (cf. Mt 1,18-25; Lc 1,26-38), ma pur tuttavia nel contesto di un matrimonio, nel quale Maria è la sposa e Giuseppe lo sposo (cf. Mt 1,16.18ss.24; Lc 1,27; 2,5). “Fattosi veramente uno di noi, in tutto simile a noi, fuorché nel peccato” (Eb 4,15), “Gesù è entrato nella storia degli uomini attraverso la famiglia… una via dalla quale l’essere umano non può distaccarsi” (Giovanni Paolo II, Lettera alle Famiglie, n. 2).
Questa esigenza è talmente percepita da san Tommaso, da farne il punto di partenza nella Terza parte della sua Summa (q.29), appunto dove tratta dei Misteri della vita di Cristo. Affrontando il tema “dell’ingresso del Figlio di Dio nel mondo”, si pone subito due domande molto concrete: “Cristo doveva nascere da una donna sposata?; il matrimonio tra la Madre del Signore e Giuseppe fu vero matrimonio?”. Egli ritiene la questione molto importante, tanto da considerarne distintamente la convenienza riguardo a Gesù, alla Vergine e a noi, per poi soffermarsi sulla natura del matrimonio con lo scopo preciso di illustrare la validità del matrimonio tra Maria e Giuseppe. Nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos, Giovanni Paolo II afferma con forza che “anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe” (n.7).
Genealogia e matrimonio si intrecciano e garantiscono a vicenda, come è dimostrato dalla genealogia di Matteo, che attraverso il matrimonio incorpora Gesù tra i discendenti di Davide, nonostante il suo concepimento verginale. Dopo l’ininterrotta catena dei “generò”, che scende da Abramo a Giuseppe, a Matteo è sufficiente qualificare Giuseppe come “vir Mariae” (1, 16) per trasferire a Gesù il titolo di “figlio di Davide”, indispensabile perché Gesù sia riconosciuto come “il Cristo”. “Il figlio di Maria è anche il figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce” (RC, n.7). Gli evangelisti li qualificano come “genitori” (Lc 2,41), anzi espressamente come “suo padre e sua madre” (v.33). Maria non esita a dire: “Tuo padre ed io” (v.48); Gesù li riconosce tali, prestando loro obbedienza: “Era loro sottomesso” (v.51), tanto da essere considerato, oltre che figlio di Maria, anche figlio di Giuseppe (cf. Lc 3,23; 4,22; Mt 13,55; Gv 6,42).
Nella preghiera di Leone XIII, “A te, o beato Giuseppe“, il matrimonio di Maria e Giuseppe è definito “sacro vincolo di carità”, espressione non comune, ma teologicamente esatta, di un vincolo, la cui natura è costantemente collocata da sant’Agostino e da san Tommaso ” ‘nell’indivisibile unione degli animi’, nell’‘unione dei cuori’, nel ‘consenso’, elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare” (RC, n.7). E’ un’esemplarità irripetibile, è vero, ma altrettanto fondamentale: “Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo Amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena ‘libertà’ il ‘dono sponsale di sé’ nell’accogliere ed esprimere un tale amore” (RC, n.7).
L’essenza del matrimonio, il carattere sponsale dell’amore, è il dono della persona alla persona, la mutua donazione di due persone. Il patto coniugale, che scaturisce dall’irrevocabile consenso personale, col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono , dà origine all’ “intima comunità di vita e di amore coniugale” (Gaudium et spes, n.48), che è appunto il matrimonio.
L’esperienza peccaminosa, che l’uomo storico ha fatto della conoscenza del bene e del male, non gli consente più di realizzare in “piena libertà” il dono totale di sé. L’unità dei primi due esseri umani, Adamo ed Eva, come pure quella dei loro discendenti, non può vivere pienamente l’ethos del comandamento dell’amore, perché continuamente minacciata dal “dominio” dell’uomo sulla donna (cf. Gen 3,16), che comporta “il turbamento e la perdita della stabilità della fondamentale uguaglianza” e compromette l’autentica “communio personarum” (Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, n.10).
Questa situazione non consente più all’uomo di vivere pienamente il “dono di sé” iscritto nel progetto originale della creazione; benché risanato, la ferita del peccato originale lo ha vulnerato e reso vulnerabile. Nella Lettera alle famiglie, Giovanni Paolo II sottolinea “i pericoli che indeboliscono o addirittura distruggono la sua unità e stabilità”. Egli si riferisce esplicitamente all’egoismo del singolo e della coppia, all’individualismo, alle “passioni dell’anima”, all’utilitarismo etico (n.14); “mediante la concupiscenza l’uomo tende ad appropriarsi di un altro essere umano, che non è suo, ma che appartiene a Dio” (n.20).
La libertà del dono “ritrovata”
Il mistero della redenzione ha dato all’uomo “la capacità di curare simili ferite” attraverso “la grazia del perdono e della riconciliazione, che assicura l’energia spirituale di iniziare sempre di nuovo” (n.14) . Ciò significa che il mistero della redenzione restituisce all’uomo la “purezza del cuore”, ma tuttavia con “una diversa misura di ‘spiritualizzazione’, che comporta un’altra composizione delle forze interiori dell’uomo stesso, quasi un altro rapporto corpo-anima, altre proporzioni interne tra la sensitività, la spiritualità, l’affettività, cioè un altro grado di sensibilità interiore verso i doni dello Spirito Santo” (Giovanni Paolo II, Allocuzione, Oss. Rom., 14 feb. 1980) . Attraverso l’innocenza, che è lo stato di natura integra , la grazia della creazione rendeva impossibile ai due protagonisti dell’Eden di ridursi reciprocamente a mero oggetto l’uno dell’altro; essa consentiva loro di vivere la prima festa dell’umanità in tutta la pienezza originaria dell’esperienza del significato sponsale del corpo.
La “piena” libertà del dono
Ebbene, agli albori della redenzione, sono stati proprio Maria e Giuseppe, arricchiti di tutti quei doni celesti richiesti dalla singolare missione di “genitori” (Luca 2,41) del Figlio di Dio incarnato, a rivivere nella loro comunione sponsale questa stessa festa, realizzando la dimensione originaria ed esemplare della creazione; essi sono stati e rimangono per l’umanità il rinnovato “sacramento” dell’Amore originario, che è puro e disinteressato dono di sé.
Nella piena consapevolezza di essere voluti dal Creatore ciascuno di loro “per se stesso” ed entrambi per Cristo, essi hanno pienamente ritrovato se stessi proprio nel dono disinteressato di sé. In Maria e Giuseppe si è totalmente realizzato quello che per la prima coppia era rimasto solamente un ideale: “Così l’uomo nel primo incontro beatificante ritrova la donna, ed essa ritrova lui. In questo modo egli accoglie interiormente lei, l’accoglie come essa è voluta ‘per se stessa’ dal Creatore, come è costituita nel mistero dell’immagine di Dio attraverso la sua femminilità; e, reciprocamente, essa accoglie lui nello stesso modo, come egli è voluto ‘per se stesso’ dal Creatore e da lui costituito mediante la sua mascolinità” (Giovanni Paolo II, Allocuzione, Oss. Rom., 17 gen. 1980). Esecutore obbediente del comando divino: “Tieni senza esitare la tua sposa Maria” (Mt 1,20), Giuseppe ha certamente accolto la sposa “per se stessa” e, conseguentemente, “non la conobbe” (v.25), nel pieno rispetto del progetto di Dio su di lei, che era diverso da quello di Eva. Giuseppe e Maria hanno insieme integralmente vissuto l’esperienza del dono, scambiandosi il dono sincero della propria persona e vivendo in modo singolare, in tutta la sua pienezza, la stessa libertà del dono, che sta alla base del significato sponsale del corpo, ossia la capacità di esprimere l’amore. “Quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e – mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere ed esistere” (Giovanni Paolo II, Ibidem).
I Padri della Chiesa e i teologi non hanno mancato di occuparsi lungo i secoli della natura del matrimonio tra la Vergine Madre di Dio e san Giuseppe, scoprendone sempre più l’importanza sia sotto l’aspetto cristologico, che sotto gli aspetti salvifico ed ecclesiale. Di qui la sua celebrazione liturgica, risalente all’inizio del secolo XV, e la sua larga diffusione presso Diocesi e Ordini religiosi. La data che si impose maggiormente è il 23 gennaio; la scelta di altre date sta ad indicare quanto essa fosse ritenuta importante, così da non “cadere” solo per motivo di coincidenza con altre celebrazioni .
Il matrimonio di Maria e Giuseppe è ben radicato nell’economia dell’incarnazione; il riferimento “sponsale” corre da una parte all’altra dei due Testamenti; la teologia della Chiesa e quella della vita consacrata ne fanno abbondante uso; il magistero ha sviluppato convenientemente il tema.
La pastorale familiare, invece, fatica a rendersene conto, convinta che la festa del matrimonio di Maria e Giuseppe (o dei Santi Sposi) sia già inclusa nella festa della santa Famiglia, costituendone, quindi, un doppione. Questa convinzione non considera che si tratta, invece, di due realtà ben differenti, come lo sono il fiume e la sua sorgente; la famiglia, infatti, nasce dal matrimonio, come il fiume dalla sorgente. Se nel passato si parlava di crisi della famiglia, oggi ci si rende sempre più conto, attraverso il dilagante fenomeno del divorzio, che l’inquinamento del fiume (la famiglia) dipende soprattutto dall’inquinamento della fonte (il matrimonio). Si tratta, in definitiva, di due realtà interdipendenti, non contrapposte, ma ben distinte.
Dalla sorgente al fiume
L’atto creativo di Dio, accanto alla sua dimensione “originaria”, conserva per sempre nei riguardi dell’uomo, maschio e femmina, la sua dimensione “esemplare”, come Gesù afferma riferendosi al “principio” (Mt 19,4); tale dimensione, infatti, trova in Dio il suo prototipo, come ancora Gesù indica nella sua preghiera: “Tutti siano una cosa sola, come io e te siamo una cosa sola” (Gv 17,21). “Nelle parole del Concilio la ‘comunione’ delle persone è, in un certo senso, dedotta dal mistero del ‘Noi’ trinitario e quindi anche la ‘comunione coniugale’ viene riferita a tale mistero. La famiglia, che prende inizio dall’amore dell’uomo e della donna, scaturisce radicalmente dal mistero di Dio. Ciò corrisponde all’essenza più intima dell’uomo e della donna, alla loro nativa ed autentica dignità di persone” (Lettera alle famiglie, n.8).
Entriamo qui nella dimensione del “mistero”, ossia del “rinnovamento di tutte le cose in Cristo”, che inizia proprio dalla sorgente, ossia dal matrimonio di Maria e Giuseppe, e da questa si prolunga nel fiume, ossia nella famiglia. La famiglia nasce, infatti, dal matrimonio. Il pensiero del magistero è molto chiaro in proposito: “In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già alle soglie dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si spande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita”.
Questa importante affermazione non è incauta. Si trova, infatti, nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos (n.7), ed è, a sua volta, una citazione di Paolo VI . A chi nonostante sembrasse nuova questa dottrina si potrebbe ricordare che il collegamento esplicito della società familiare con la Famiglia di Nazaret e di questa con l’inizio della redenzione è già presente nella Lettera apostolica Neminem fugit: “Dio misericordioso, avendo decretato di compiere l’opera della riparazione umana aspettata lungo i secoli, dispose il modo e l’ordinamento della stessa opera in maniera che gli stessi suoi primi inizi mostrassero al mondo l’augusto ideale della famiglia divinamente costituita, in cui tutti gli uomini vedessero un assolutissimo esemplare (absolutissimum exemplar) della società domestica e di ogni virtù e santità. Tale fu davvero la Famiglia Nazaretana, nella quale era nascosto il Sole di giustizia prima che risplendesse in piena luce a tutte le genti: e cioè Cristo Dio Salvatore nostro con la Vergine Madre e Giuseppe Sposo santissimo, che svolgeva il compito di padre verso Gesù” (Leone XIII, 14 giugno 1892). L’Inno Christe, splendor Patris delle Lodi della Domenica della Santa Famiglia è esplicito: “Cunctis praestant aulis / haec egena septa / salus unde coepit / generis humani (Queste povere pareti / fra le quali è iniziata / la salvezza del genere umano / superano tutte le corti)”.
Considerando la santa Famiglia come “inserita direttamente nel mistero stesso dell’Incarnazione”, Giovanni Paolo II ne sottolinea l’importanza e ne afferma la dignità di mistero salvifico. La Famiglia di Nazaret, composta da Giuseppe, Maria e Gesù, non è una “idealizzazione” della famiglia: “La famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme – così come nell’Incarnazione – a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio – vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione: eppure essa non è ‘apparente’, o soltanto ‘sostitutiva’, ma possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E’ contenuta in ciò una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche ‘assunto’ tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche ‘assunta’ la paternità umana di Giuseppe. In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: ‘Tuo padre ed io… ti cercavamo’. Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell’incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall’inizio accettò mediante ‘l’obbedienza della fede’ la sua paternità nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità” (RC, n.21). La festa della santa Famiglia è considerata giustamente parte integrante dell’anno liturgico. Essa non è una festa di devozione, ma la celebrazione di un mistero salvifico, che ha la sua radice nell’incarnazione, fondamento della redenzione .
Matrimonio e famiglia
Abbiamo accennato all’importanza della genealogia, del matrimonio e della famiglia. In particolare ci siamo soffermati sulla distinzione tra matrimonio e famiglia, come pure sulla loro mutua dipendenza, ricorrendo al paragone della sorgente e del fiume che ne deriva. Abbiamo anche riportato l’insegnamento di Giovanni Paolo II riguardo alla santa Famiglia “inserita direttamente nel mistero dell’incarnazione”, la quale “costituisce essa stessa uno speciale mistero”. Rimane giustificata, perciò, la speciale attenzione verso il matrimonio di Maria e Giuseppe, indispensabile per garantire la paternità umana di Giuseppe necessariamente “assunta” nel contesto familiare. A questa legge della natura umana non ha voluto sottrarsi il Verbo che, incarnandosi, l’ha assunta.
Origene osserva giustamente che era necessario che “colui che aveva deciso di vivere in modo umano (humano more) tra gli uomini, si lasciasse guidare da coloro che lo allevavano (a nutritiis)… Non perché non si potesse fare altrimenti, ma perché doveva seguire la via ordinaria (via et ordine)” (Contra Celsum, 1,66: PG 11,783-6).
Secondo quali “via et ordine” interagiscono nella santa Famiglia il matrimonio e la famiglia, dove tutto sembra così “singolare”? Ebbene, è proprio la “singolarità” del matrimonio di Maria e Giuseppe, finalizzato all’ordinato inserimento di Gesù nella famiglia umana, che offre a san Tommaso l’occasione per sviluppare la dottrina sul matrimonio, non limitato al solo aspetto della generazione, ma aperto alla famiglia stessa. Di proposito egli, nella questione, “se il matrimonio tra la Madre del Signore e Giuseppe fu vero matrimonio”, distingue nel matrimonio “due” perfezioni. Dopo aver affermato che “l’essenza del matrimonio consiste nell’indivisibile unione degli animi, che obbliga ciascuno di coniugi a mantenersi perpetuamente fedele all’altro”, precisa che “il fine del matrimonio è la generazione e l’educazione della prole; la generazione si ottiene mediante l’unione sessuale; l’educazione mediante quell’aiuto reciproco che marito e moglie si prestano per allevare la prole. Ebbene, rispetto alla prima perfezione, il matrimonio tra la vergine Madre di Dio e san Giuseppe fu verissimo, perché entrambi acconsentirono all’unione coniugale; non acconsentirono, tuttavia, all’unione sessuale, se non sotto condizione: se Dio vuole. Quanto alla seconda perfezione, invece, che dipende dagli atti propri del matrimonio, se ci riferiamo all’unione sessuale, che genera la prole, quel matrimonio non fu consumato; quel matrimonio ebbe, tuttavia, la seconda perfezione, per quanto riguarda l’educazione della prole” (Summa Theologiae, q.29, a.2 in c.).
In una società edonistica ed individualistica come la nostra è quanto mai attuale conoscere e soffermarci su questa dottrina, che pone nella sua giusta luce i concetti di paternità e maternità e i doveri che ne derivano. “La prole non è detta bene del matrimonio solo in quanto è generata per mezzo di esso, ma in quanto nel matrimonio viene accolta ed educata. Perciò, né il nato da adulterio, né il figlio adottivo educato nel matrimonio sono bene del matrimonio, perché il matrimonio non è destinato alla loro educazione, come invece fu destinato specialmente questo matrimonio per accogliere in se stesso la prole e per educarla” (IV Sent., d.30, q.2, a.2 ad 4). Di qui si comprende come sia da rifiutare il titolo di padre “adottivo” attribuito da qualcuno a san Giuseppe e conseguentemente anche il suo coinvolgimento nella pur lodevole paternità “adottiva”.
Il bonum prolis del matrimonio di Maria e Giuseppe non può non essere singolare, essendo singolare la prole stessa, ossia Gesù: “Due cose costituiscono il bene del matrimonio, cioè l’accoglienza della prole per mezzo della generazione e la sua educazione in esso. Si deve dire che Cristo ha la seconda in modo esplicito, perché è educato dalla pietà dei genitori…; al posto della prima c’è che fu accolto nel matrimonio, anche se non per mezzo di esso, e perciò è detto bene del matrimonio non del tutto come gli altri bambini” (IV Sent., d.30, a.9 ad 3).
E’ chiaro che per san Tommaso il fondamento di questa dottrina sul bonum prolisva ricercato nella dignità della persona umana: “La natura non intende nella prole solo l’essere, ma l’essere perfetto… Infatti, la natura non intende solo la generazione della prole, ma il suo sviluppo e la sua promozione fino allo stato perfetto dell’uomo in quanto è uomo, che è stato di perfezione. Secondo il filosofo, abbiamo quindi tre cose dai genitori, ossia l’essere, il nutrimento e la disciplina” (Suppl., q.41,a.1 ad 4 et in c.). Per prole, dunque, “non va intesa solo la procreazione, ma anche la sua educazione, alla quale è ordinata tutta la scambievole attività del marito e della moglie in quanto sono uniti in matrimonio” (Suppl., q.49, a.3 ad 1).
L’inseparabilità della procreazione dall’educazione è anche la ragione che Tommaso adduce per la condanna della relazione sessuale extraconiugale. “Il fine che la natura intende dall’unione sessuale è la procreazione e l’educazione della prole”. Anche un rapporto sessuale che abbia come fine la prole, “non è conveniente al bene della prole, per il quale non si intende solo la sua procreazione, per cui la prole riceve l’essere, ma anche l’educazione e l’istruzione, con le quali riceve dai genitori il nutrimento e la disciplina, doveri ai quali sono tenuti i genitori nei riguardi della prole” (Suppl., q.65, a.3 in c.).
.
Il primo esempio divino dell’educazione cristiana
Pio XI affermava: “Maria e Giuseppe, queste due purezze, queste due figure sublimemente edificanti nell’orizzonte del bene, questi due coefficienti dell’educazione umana dello stesso Gesù, offrono realmente il primo divino esempio dell’educazione cristiana” (Allocuzione del 23 maggio 1929) . Anche Paolo VI, riflettendo sul rapporto tra Maria e Giuseppe, metteva in evidenza la circostanza che san Giuseppe “diede a Gesù non i natali, ma lo stato civile, la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’educazione umana” (Omelia del 19 marzo 1964).
Giovanni Paolo II non ha trascurato questo importante aspetto nei suoi insegnamenti. Dopo aver sottolineato che “Maria è Theotokos non solo perché ha generato e partorito il Figlio di Dio, ma anche perché lo ha accompagnato nella sua crescita umana”, prosegue: “Si potrebbe pensare che Gesù, possedendo in sé la pienezza della divinità, non abbia avuto bisogno di educatori. Ma il mistero dell’incarnazione ci rivela che il Figlio di Dio è venuto nel mondo in una condizione umana del tutto simile alla nostra, eccetto il peccato (cf. Eb 4,15). Come avviene per ogni essere umano, la crescita di Gesù, dall’infanzia fino all’età adulta (cf. Luca 2,40), ha avuto bisogno dell’azione educativa dei genitori. Il vangelo di Luca, particolarmente attento al periodo dell’infanzia, narra che Gesù di Nazaret era sottomesso a Giuseppe e Maria (cf. Lc 2,51). Tale dipendenza ci mostra Gesù nella disposizione a ricevere, aperto all’opera educativa di sua madre e di Giuseppe, che esercitavano il loro compito anche in virtù della docilità da lui costantemente manifestata. I doni speciali, di cui Dio aveva ricolmato Maria, la rendevano particolarmente idonea a svolgere il compito di madre ed educatrice. Nelle concrete circostanze di ogni giorno, Gesù poteva contare sulla figura paterna di Giuseppe, uomo giusto (cf. Mt 1,19), che assicurava il necessario equilibrio dell’azione educativa. Esercitando la funzione di padre, ha cooperato con la sua sposa a rendere la casa di Nazaret un ambiente favorevole alla crescita e alla maturazione personale del Salvatore dell’umanità. Iniziandolo, poi, al duro lavoro di carpentiere, Giuseppe ha permesso a Gesù di inserirsi nel mondo del lavoro e nella vita sociale. Guardando ai risultati, possiamo certamente dedurre che l’opera educativa di Maria è stata molto incisiva e profonda e ha trovato nella psicologia umana di Gesù un terreno molto fertile…
Rimane la grandezza del compito della Vergine Madre: dall’infanzia all’età adulta, ella ha aiutato il figlio Gesù a crescere ‘in sapienza, età e grazia’ (Lc 5,52) e a formarsi alla sua missione” (Catechesi del 4 dicembre 1996). Altrettanto e forse ancora di più si deve dire del ruolo educativo di san Giuseppe, trattandosi di un figlio di sesso maschile, circostanza che ha comportato un maggiore contatto e confronto con la figura paterna, tenuto conto che nella tradizione ebraica tra i doveri del padre verso il figlio c’è espressamente quello di “istruirlo nella Torà e in un mestiere” . Già il Catechismo della Chiesa Cattolicaaveva sottolineato che Gesù è stato veramente educato nella sua famiglia, dal momento che l’anima umana assunta dal Figlio di Dio è dotata di una vera conoscenza umana: “In quanto tale, essa non poteva di per sé essere illimitata: era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha voluto ‘crescere in sapienza, età e grazia’ (Lc 2,52) e anche doversi informare intorno a ciò che nella condizione umana non si può apprendere che attraverso l’esperienza” (n.472).
San Tommaso, da parte sua, sottolinea il ruolo importante del padre nell’educazione della prole: “E’ chiaro che per l’educazione dell’uomo non solo è richiesta la cura della madre, dalla quale è nutrito, ma molto più la cura del padre, che deve istruirlo, difenderlo e perfezionarlo nei beni sia interiori che esteriori…”. E’ al padre “che tocca l’educazione della prole” (Summa Theologiae, II-II, q.154, a.2 in c.).
Su questo ruolo del padre san Tommaso fonda il dovere (debitum) reciproco del figlio, che deriva non solo “dal fatto che il padre è principio della generazione e dell’essere”, ma “anche dell’educazione e della dottrina” (Ibidem, q.100, a.5 ad 4) “e di quanto interessa la perfezione della vita umana” (Ibidem, q.102, a. 1 in c.). San Bonaventura attribuisce giustamente a san Giuseppe il titolo di pater educativus (Comm. in Luc., cap. III).
Tra i misteri della vita nascosta di Gesù, dei quali san Giuseppe è stato “minister salutis”, la Redemptoris custos non poteva omettere “il sostentamento e l’educazione di Gesù, a Nazaret”: “La crescita di Gesù ‘in sapienza, in età e in grazia’ (Lc 2,52), avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l’alto compito di ‘allevare’, ossia di nutrire, vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre… Da parte sua, Gesù ‘era loro sottomesso’ (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi ‘genitori’. In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe” (n.16). Il Catechismo della Chiesa Cattolica ne esplicita il significato salvifico: “Tale sottomissione è l’immagine nel tempo dell’obbedienza filiale al suo Padre celeste… L’obbedienza di Cristo nel quotidiano della vita nascosta inaugura già l’opera di restaurazione di ciò che la disobbedienza di Adamo aveva distrutto (cf. Rm 5,19)” (n.532).
Considerando che la comunanza di vita e di lavoro con san Giuseppe dovette influire sulla formazione umana di Gesù, Paolo VI osserva come “il vangelo delle Beatitudini comincia con questo introduttore, chiamato Giuseppe… Proprio il Signore ci presenta questo suo introduttore, questo suo custode e padre putativo, nelle forme le più umane, le meno solenni, quelle a tutti accessibili” (Allocuzione del 19 marzo 1968). Lo stesso Pontefice ritorna su questo pensiero: “San Giuseppe è il tipo del Vangelo che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazaret e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; san Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; san Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono ‘grandi cose’, ma bastano e occorrono virtù comuni, umane, semplici, ma vere e autentiche” (Allocuzione del 19 marzo 1969).
Molte altre cose si potrebbero e dovrebbero aggiungere su questo tema poco esplorato, ma certamente inserito nel mistero dell’incarnazione e presente nella pietà dei fedeli, come testimonia l’Inno “Salve, Ioseph, custos pie, sponse Virginis Mariae, educator optime” , meritata lode e riconoscimento della missione paterna di san Giuseppe condotta felicemente a termine. Già all’inizio dell’Esortazione Redemptoris custos Giovanni Paolo II aveva toccato questo tema, citando sant’Ireneo , il quale scriveva che san Giuseppe “si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo” (n.1).
Terminiamo con le parole di Giovanni Paolo II nella catechesi sopra citata: “Maria e Giuseppe emergono perciò oggi come modello di tutti gli educatori. Essi li sostengono nelle grandi difficoltà che oggi incontra la famiglia e mostrano loro il cammino per giungere a una formazione incisiva ed efficace di figli. La loro esperienza educatrice costituisce un punto di riferimento sicuro per i genitori cristiani, chiamati in condizioni sempre più complesse e difficili a porsi al servizio dello sviluppo integrale della persona dei loro figli, perché vivano un’esistenza degna dell’uomo e corrispondente al progetto di Dio”.
.
La Santa Famiglia, mistero di salvezza
La santa Famiglia non solo gode della singolarità di essere all’inizio della redenzione , ma è anche “unica al mondo”, avendo glorificato Dio “in modo incomparabilmente alto e puro”. La ragione di tutto questo è dovuta al fatto che, “per un misterioso disegno di Dio, in essa è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio” (Familiaris consortio, n. 7); considerando che la sua umanità è “strumento congiunto” della sua divinità, ne emerge subito la straordinaria efficacia se paragonata a quella pur notevole dei sacramenti, “strumenti separati”. L’umanità di Gesù è lo “strumento” della divinità per eccellenza: strumento santificato e santificante. San Tommaso dedica una particolare attenzione alla santificazione dell’umanità di Cristo, che è somma perché dipendente dalla “grazia dell’Unione”: “De gratia Christi secundum quod est singularis homo” (Summa Theologiae, III, q.7). Punto capitale della cristologia, la gratia Unionis coinvolge tutte quelle verità che riguardano le esigenze concrete dell’umanità stessa assunta dal Verbo incarnato e subito tra queste proprio la famiglia “quale prima dimensione della sua esistenza in terra” (RC, n.21). La famiglia è un tessuto senza cuciture, è una comunione di vita e di amore, una condivisione tanto più totale quanto più la famiglia stessa è perfetta. Leone XIII lo ha esplicitamente affermato per il matrimonio di Maria e Giuseppe, dal quale sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù: “E’ certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma poiché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il matrimonio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, dell’eccelsa grandezza di lei” (Enc. Quamquam pluries, in RC, n.20) .
Quanta santità sia derivata a Maria dalla divina maternità di Gesù lo hanno definito i dogmi dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione. Ma poiché è un principio generale che “quanto più ciò che può ricevere è vicino alla causa influente, tanto più partecipa del suo influsso” (Summa Theologiae, III, q. 7, a.1), che cosa non dovette ricevere anche Giuseppe, che “era in quotidiano contatto con il mistero ‘nascosto da secoli’, che ‘prese dimora’ sotto il tetto di casa sua” (RC, n.25)? Tale contatto non era una qualsiasi coabitazione con Gesù, per quanto intima, ma era il contatto di un padre con il figlio! Gli effetti di tale paternità sono indicati nelle parole di Giovanni Paolo II: “Poiché l’amore ‘paterno’ di Giuseppe non poteva non influire sull’amore ‘filiale’ di Gesù e, viceversa, l’amore ‘filiale’ di Gesù non poteva non influire sull’amore ‘paterno’ di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione?” (RC, n.27).
Queste relazioni naturalmente necessarie nella famiglia e, inoltre, perfette in quella di Nazaret, sono talmente inseparabili dall’Incarnazione, da rendere logica l’affermazione di F. Suárez circa l’appartenenza di san Giuseppe all’ordine dell’Unione ipostatica o dell’Incarnazione, essendo san Giuseppe una componente indispensabile della santa Famiglia, che è mistero di salvezza.
A questo livello si colloca la “teologia” delle “due Trinità”, dove si incontrano la “Trinità terrena” e la “Trinità celeste”. Ricorrendo alla categoria teologica dell’icona, intesa come “riflesso” delle realtà soprannaturali in quelle naturali, se ci chiediamo dove e meglio la “Santissima Trinità” si rispecchi sulla terra, la risposta non può essere che una: nella Santa Famiglia, formata dalle tre persone, Gesù, Maria e Giuseppe. L’argomento è stato ampiamente trattato dagli artisti e parimenti ben compreso dalla pietà popolare, che non ha mancato di diffondere le immagini delle “due Trinità”, presenti in molte nostre case. Si tratta di un caso singolare, nel quale “pura” teologia e “semplice” devozione si fondono insieme .
Nella grave crisi che sta attraversando oggi la famiglia, uno sguardo alle “due Trinità”, sia per invocarle che per imitarle, potrebbe essere un valido aiuto. Una preghiera di Pio XII inizia proprio così: “O sacra Famiglia, Trinità della terra, o Gesù, Maria e Giuseppe. Sublimi modelli e tutori delle famiglie cristiane, a voi ricorriamo, non solo per confortarci con la soave contemplazione dei vostri amabili esempi, ma anche per implorare la vostra protezione e promettervi costante fedeltà nel sentiero che c’indicate” (30 dicembre 1957) . Più recentemente, gli stessi sentimenti li troviamo condivisi da san Giovanni Paolo II, che diceva ai fedeli della parrocchia della Santa Famiglia di Nazaret, in Roma: “Che la presenza della santa Famiglia, la sua benedizione, sia qui, tra voi; che Gesù, Maria e Giuseppe siano con voi. E che, attraverso questa trinità terrena che è la santa Famiglia, vi sia vicina la Trinità divina: Padre, Figlio e Spirito Santo” (9 febbraio 1992).
.
La Trinità terrena
Siamo arrivati al tema più importante, come è facile intuire dal titolo, ossia quello della “Trinità terrena” (o espressione similare), che richiama la “Trinità celeste”. Ci può essere di aiuto per comprenderlo la categoria teologica dell’icona, intesa come “riflesso” delle realtà soprannaturali in quelle naturali. Se ci chiediamo, infatti, dove e meglio la “Santissima Trinità” si rispecchi sulla terra, la risposta non può essere che una: nella Santa Famiglia, formata dalle tre persone: Gesù, Giuseppe e Maria. L’argomento è stato ampiamente trattato dagli artisti e parimenti ben compreso dalla pietà popolare, che non ha mancato di diffondere le immagini delle “due Trinità”, presenti in molte nostre case. Si tratta di un caso singolare, nel quale “pura” teologia e “semplice” devozione si fondono insieme.
Mi lascerò guidare in questa trattazione da J. M. Blanquet (La Sagrada Familia, Icono de la Trinidad, Barcelona 1996), dagli Atti dei Congressi sulla Sacra Famiglia, organizzati dai Figli della Sacra Famiglia, e dagli studi di T. Fitych sul mistico Bernard Rosa.
Studiando il tema della santa Famiglia nella poesia italiana dei primi secoli, U. Lovato ha scoperto che il primo ad usare la nostra espressione “Trinità creata” è stato fra Felice Tancredi da Massa (Marittima). Dopo la morte di santa Caterina da Siena (1380), egli scrisse un poemetto, intitolato La fanciullezza di Gesù. Ebbene, là dove narra la presentazione di Gesù al tempio, incontriamo questa riflessione: “Or pensa quanti e quali offeritori (offerenti) / furon presenti nel giorno odierno: / Ioseppe, un de’ beati seniori (anziani), / che aveva di Iesù sommo governo; / Maria speme certa a’ peccatori; / Messia (Gesù) promesso dal Padre superno. / O trinità creata in gran virtute, / le cui offerte in ciel son ricevute!”.
Più noto, tuttavia, rimane Giovanni Gersone, cancelliere di Notre-Dame e dell’università di Parigi, il quale, terminato il suo poema Iosephina (1418), compose un inno, che altri però attribuiscono al card. Pierre d’Ailly (+1420), dove sviluppa un parallelo tra le due “Trinità”, celeste e terrestre, esercitando“un fascinoso influsso, per oltre due secoli, su scrittori, poeti, artisti e mistici di buona parte d’Europa”. Già nel 1416, alla vigilia del suo celebre discorso al Concilio di Costanza, Gersone aveva concluso una sua lettera all’amico Dominique Petit con questa formula: “Con l’intercessione della venerandissima e divinissima Trinità Gesù, Giuseppe e Maria”.
Ecco l’inno, tradotto da Lovato, con qualche leggero ritocco:
“O venerabile Trinità, Gesù, Giuseppe e Maria, che la divinità ha congiunto in concorde amore!
La vergine Madre partorisce in un rifugio; Gesù le succhia il seno, e Giuseppe gode d’amorosa compiacenza.
Ecco: la Vergine serve il vergine con umile benevolenza, ma con un amore più intenso serve la Prole verginale.
Grande lode si merita Giuseppe per la sua umiltà, maggiore la merita la Vergine, ma nella Prole divina essa tocca il culmine.
Perciò con le nostre lodi esaltiamo questo trono d’umiltà, distinto in tre gradi, e un così immenso dono di grazia,
affinché, per loro intercessione, ci sia concesso di conseguire una vita d’umiltà e poi godere, per loro grazia, della felicità eterna.
E così cantando lodi al Signore uno e trino, noi umili suoi servi acclamiamo con l’amen questa trina e santa famiglia”.
L’inno pone in evidenza come sia la divinità di Gesù ad assicurare l’unione della trinità terrestre con quella celeste; di qui la concordia promossa dalla carità (caritatis concordia) ed espressa nell’umiltà (humilitatis vita). É proprio questa il suo trono (humilitatis thronum), la cui sommità è occupata da Gesù.
Sarà il gesuita Pedro de Morales a sviluppare nel suo ampio commentario al primo capitolo di Matteo (1614) il tema “de coelesti et terrestri Trinitate”. Egli nota che già è “degno di massima considerazione e attenzione”, segno di un mistero, il fatto che all’inizio del “libro della vita” (la genealogia) Matteo scriva congiuntamente i nomi Gesù, Maria e Giuseppe, con pari numero di lettere e di sillabe. Lo stesso Signore Gesù, per manifestare agli uomini la celeste ed eminentissima Trinità, nel suo ingresso nel mondo ha istituito sulla terra un’altra Trinità proporzionalmente simile, ossia Gesù, Maria e Giuseppe. “Come, infatti, nella Trinità celeste ci sono tre persone distinte e una sola essenza, così anche in questa ammirabile Trinità terrestre ci sono tre persone, ma, per un incomparabile amore, un cuor solo e un’anima sola, nelle quali si è realizzata perfettissimanente la preghiera dello stesso Signore… Gesù, Maria e Giuseppe sono stati la Trinità terrestre, a somiglianza della celeste… In questa Trinità terrestre, la Deipara corrisponde all’eterno Padre; Cristo stesso è la seconda persona e figlio, benché in modo diverso, di entrambi; Giuseppe, invece, corrisponde allo Spirito Santo… E poiché la celeste ed eterna Trinità è ineffabile, superando il nostro intelletto, a suo modo anche la nostra Trinità, Gesù, Maria e Giuseppe, supera tutto il nostro ingegno e scienza”. Per quanto riguarda in particolare il nostro santissimo Giuseppe, “è simile alle tre divine persone della Trinità celeste. Infatti, dell’eterno Padre ha il nome, il compito e il posto; del Divin Verbo è vero padre in tutto, eccetto la generazione naturale, vero nutritore e tutore; è simile allo Spirito Santo, essendo vero sposo della sua sposa Maria, e custode fedelissimo”. Venerare questa Trinità, significa imitarne la virtù e la santità, seguendo gli esempi di Gesù, Maria e Giuseppe.
Il domenicano Giovanni de Osorio (+1594) aggiunge che a Giuseppe è stato affidato l’“anello”, che è Cristo, il quale unisce Dio e l’uomo: “l’oro dell’anello è l’umanità di Gesù… la gemma è la divinità”. Il francescano Giovanni di Cartagena (+1618) mette in evidenza come “questa Trinità di persone ha operato la nostra redenzione: Gesù, come autore della salvezza; Maria, come mediatrice; Giuseppe, come cooperatore”. Egli sottolinea in particolare la “simpathia” dello Spirito Santo con san Giuseppe, che ne “rappresenta la persona”: “Come lo Spirito Santo a guisa del cuore è fonte della vita e di tutti gli spiriti vitali per cui il corpo è nutrito e vive, così Giuseppe nutrendo e facendo crescere il bambino Gesù si è manifestato come principio della sua vita e di tutti gli spiriti vitali che si diffondevano attraverso le varie arterie del suo corpo”. Trattandosi di analogie, la ricchezza dell’argomento consentirà ai teologi il mutevole scambio dei ruoli tra san Giuseppe e le Persone della SS. Trinità. Seguendo il citato studio di J.M. Blanquet, mi limito qui a citare san Francesco di Sales (+1622), l’oratoriano Francesco Bourgoing (+1661), i cistercensi Carlo de Saint Paul (+1644) e Bernard Rosa (+1696), che considera il ruolo di san Giuseppe alla luce del matrimonio mistico dell’anima con la Trinità, il domenicano Giustino Mieckow (+1642), il gesuita Jean-Pierre Médaille (+1669) e, più vicino a noi, san José Manyanet y Vives (+1901).
Nel documenti del magistero e negli studi più recenti non mancano certamente i riferimenti alla Santa Famiglia in relazione alla SS. Trinità. Va, tuttavia, notato lo “scollamento” operatosi nella presentazione delle “due Trinità”, sorprendente soprattutto oggi, quando la famiglia ha manifestamente più bisogno di un forte aggancio teologico e spirituale con “il mistero della Santa Famiglia”, “inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione” (Redemptoris custos, n.21) e conseguentemente nel mistero trinitario. É il cammino indicato da Giovanni Paolo II in un discorso rivolto alle famiglie: “Che siano qui tra voi Gesù, Maria e Giuseppe, questa Trinità terrena, e che attraverso questa sia vicina a voi la Trinità divina: Padre, Figlio e Spirito Santo” (10 febbraio 1992). Concludiamo con la preghiera di san Giovanni Eudes (+1680):
“O veneranda Trinità, Gesù, Giuseppe e Maria! O ammirevole società, che la grazia del cielo congiunge!
O Trinità tre volte beata, Gesù, Giuseppe e Maria, comunità mirabile, norma della nostra unione.
Gesù, Giuseppe e Maria, gaudio del mondo fedele, gloria della nostra unione, regnino nel cuore di tutti”.
Related Posts
Comments are closed.