11 – San Giuseppe nell’Iconografia
Se la teologia è debole o assente…
A proposito di certi modi di rappresentare san Giuseppe, così si esprimeva san Bernardino da Siena (+ 1444): “Gli sciocchi dipintori el dipingono vecchio maninconioso e colla mano alla gota, come s’ell avessi dolore malinconia avuta dalla guardia (di Maria) che gli era dato, che era tutto el contrario, allegro di cuore, di mente e di viso, veggendosi in tanta grazia di Dio”. Non può che stupire allora l’incredibile resistenza iconografica di san Giuseppe, il quale nelle scene dell’infanzia di Gesù è spesso rappresentato talmente vecchio da sembrare il bisnonno della madre del Bambino, età inconciliabile con il ruolo di “padre”, riconosciutogli espressamente dalla letteratura apostolica, testimoniata nei Vangeli. Il quadro qui rappresentato vuole dimostrare come dopo quasi un secolo dalla morte di S. Bernardino la mentalità non fosse cambiata. Già molto tempo prima, S. Epifanio (+403) aveva condiviso con gli apocrifi suoi contemporanei l’argomentazione della vecchiaia, non trovandone forse una più convincente contro gli ostinati eretici che negavano la verginità di Maria dopo il parto di Gesù: ed ecco san Giuseppe descritto come un marito già reduce da un precedente matrimonio e ormai vecchio (senex), sfinito dall’età (tam effetae senex aetatis), ossia vecchio-decrepito (senex ac decrepitus). Non si può capire come subito dopo lo stesso Baldung-Grien abbia potuto logicamente dipingere nella stessa serie dei quadri, collocati sopra l’altare maggiore della cattedrale di Friburgo, la successiva scena della… fuga in Egitto, dove si supporrebbe una resistenza giovanile.
Contemplando nelle nostre chiese e musei tanti quadri della natività e della vita nascosta di Gesù non si può dire che la logica, oltre che il buon senso, abbiano prevalso nei secoli successivi. Considerata la stagnante situazione degli studi riguardanti san Giuseppe, penso che la recente tendenza a ringiovanire la figura di san Giuseppe sia dovuta in gran parte al “senso della fede” del popolo di Dio, che normalmente precede l’interesse dei teologi. Un importante quotidiano “romano”, il 25 dicembre 1987, riportava un moderno racconto natalizio, nel quale san Giuseppe era descritto ancora come “l’anziano e calvo ometto dall’aria smarrita di artigiano fuori della sua bottega”. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Per uscire da questo cliché ripetitivo è necessario allargare gli orizzonti, approfondendo la letteratura patristica e religiosa in genere. L’interpretazione del “Trittico di Mérode”, sviluppata in questa sezione iconografica, può servire da esempio per una ulteriore ricerca.
Come il lettore di questo Sito potrà notare, è stata evitata di proposito la presentazione di immagini nelle quali san Giuseppe non sia “degnamente” rappresentato in modo coerente alla sua figura e missione. Nel contesto della “nuova evangelizzazione”, infatti, si rivela la necessità di non riproporre immagini – prescindendo dalla loro qualità artistica – che come già nel passato continuino a danneggiarne la figura, compromettendo l’esercizio paterno della missione di san Giuseppe, indispensabile per farlo emergere e riconoscere quale “ministro della salvezza” nel mistero dell’incarnazione, dove egli non è affatto una figura marginale! Si propongano, perciò, alla meditazione dei fedeli i “misteri della vita nascosta di Gesù”, evidenziando diligentemente la presenza “in coppia” dei Santi Sposi, il loro matrimonio, la rispettiva funzione sia materna che paterna, l’unità e la bellezza della santa Famiglia. Nelle immagini del santo Natale, ad esempio, la presenza di san Giuseppe deve essere ritenuta indispensabile. Maria non era “sola con il suo bambino”; i pastori, infatti, hanno trovato insieme “Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16). La pastorale familiare deve passare necessariamente anche attraverso un’adeguata presenza di san Giuseppe nell’iconografia, specchio di una sana teologia.
ICONOGRAFIA SAN GIUSEPPE – MEDIOEVO (Erberto Petoia)
Il cammino comune della teologia e dell’arte
Allo stesso modo che la teologia è la conoscenza e l’esposizione della fede, così le arti figurative sono analogicamente l’espressione della teologia, rispecchiando in modo visivo quanto lungo i secoli e nei diversi luoghi viene predicato ai fedeli. Essendo queste arti una testimonianza della catechesi, non si può trascurare lo studio accurato del loro contenuto – prescindendo dall’aspetto estetico, che non ci riguarda direttamente – se si vuol veramente conoscere quanto è stato teologicamente recepito e devozionalmente vissuto dal popolo fedele.
E’ facile costatare come nell’arte siano confluite le fantasticherie dei racconti apocrifi e la sobrietà dei vangeli, le riflessioni della mente e l’affetto del cuore. L’arte è il polso, dove si può oggettivamente controllare lo stato di salute della teologia. Per la conoscenza della teologia di san Giuseppe, non è affatto indifferente che il nostro Santo sia rappresentato con l’aureola o senza, giovane o vecchio, in adorazione o addormentato, accanto a Gesù e Maria ovvero appartato, semplice comparsa in una scena oppure protagonista, intento al lavoro manuale o alla lettura di un libro, con in braccio il Bambino o un arnese da lavoro, con in mano un bastone, una verga fiorita o un giglio, ecc. Dietro ogni atteggiamento figurativo c’è un presupposto logico, che va accuratamente individuato attraverso un’esatta conoscenza degli evangeli, degli apocrifi, della liturgia, dei documenti del magistero, delle devozioni, delle tradizioni, del folclore, della letteratura religiosa e dell’oratoria sacra.
Poiché i limiti della nostra rassegna non ci consentono di addentrarci dettagliatamente nel campo artistico, che d’altronde non è stato ancora tutto sistematicamente esplorato, ci limitiamo ad indicare quegli studi che escono dal generico e consentono di fare il punto almeno su qualche periodo e luogo.
Segnaliamo a questo proposito gli Atti dei Simposi Internazionali su Giuseppe, dove si possono trovare preziosi contributi che spaziano dalle origini fino al secolo XIX e che offrono, oltre i sussidi bibliografici per allargare le ricerche, anche rare illustrazioni.
Per l’iconografia dei secoli IV-VI, grandi polemiche si sono avute, riguardo alle scene d’infanzia del Signore sui sarcofagi, circa l’identificazione di san Giuseppe con la figura del pastore, nella scena della Natività, e con il personaggio che sta dietro la Vergine, nell’Adorazione dei Magi. Nel repertorio certo dell’iconografia Giuseppina ci introducono due episodi di un sarcofago frammentario di Le Puy (Francia), della fine del IV sec.: l’angelo in tunica e pallio, che appare in sogno a Giuseppe e gli ordina di prendere Maria in casa sua, e Giuseppe che sembra ricevere l’assenso di Maria oppure fa l’atto di condurla come sua sposa.
Significative sono le decorazioni dell’arco trionfale di S.Maria Maggiore, a Roma, eseguite sotto il pontificato di Sisto III (432-440), e la cattedra eburnea del vescovo Massimiliano di Ravenna (sec. VI).
Le scene anticamente più rappresentate sono il sogno e lo sposalizio di san Giuseppe, la prova delle acque amare (di origine orientale, non anteriore al sec. VI), il viaggio a Betlemme (dal sec. VI), la fuga in Egitto (molto rara nell’arte del primo millennio; il “riposo” nella fuga in Egitto compare in Italia nel sec. XIV, trasformandosi verso il 1600 in scena familiare con paesaggio idilliaco), la Natività (dalla prima metà del sec. VI), la presentazione al tempio, l’adorazione dei magi (con certezza dal sec. VI), l’avvertimento di fuggire in Egitto, la fuga in Egitto e l’episodio di Afrodisio.
San Giuseppe è rappresentato sia giovane che vecchio: i due tipi ricorrono con la stessa frequenza. L’iconografia milanese paleocristiana (sec. V) raffigura san Giuseppe piuttosto giovane e sbarbato, tradizione seguita costantemente. Un unicum della scultura medioevale è un capitello dei primi decenni del sec. XII, già della basilica di Sant’Abbondio di Como; la figura di san Giuseppe vi appare due volte:
accanto all’angelo, che lo avverte di partire, e nella fuga in Egitto. Questa seconda scena è eccezionale: Giuseppe sostiene Gesù, che lo abbraccia affettuosamente.
Il tema del dubbio di san Giuseppe con la rassicurazione dell’angelo è più frequente nell’arte bizantina che in quella occidentale. Le più antiche raffigurazioni sono quelle di due sarcofagi (Le Puy e Arles) del sec. VI. Col movimento francescano, che diffonde la devozione al presepio, la presenza di Giuseppe vi fa costantemente parte. La circoncisione di Gesù non si trova nell’arte paleocristiana e nei primi secoli della bizantina; le più antiche figure sono del secolo X. Rara è la scena del censimento a Betlemme, come pure la raffigurazione del ritrovamento di Gesù tra i dottori, nella quale Maria e Giuseppe sono ai margini della scena. Nella genealogia secondo Matteo (1, 1-17), Jacopo Giusti (1382) ha raffigurato san Giuseppe giovane, con barba e capelli castani, con la sinistra sul petto e nella destra il bastone (Basilica di s. Antonio, Padova).
La più antica rappresentazione di san Giuseppe isolato è opera di Taddeo Gaddi (1300-1352), in S.Croce (Firenze); è un vecchio con la barba, che ha nella destra un bastone fiorito. Dal secolo XV incontriamo la figura di san Giuseppe con un libro in mano; nel Rinascimento san Giuseppe con un libro in mano o mentre legge appare con una certa frequenza (vedi Documentazione al temine di questa Sezione).
La scena del Transito di san Giuseppe si diffonde dal secolo XVI. San Giuseppe “lavoratore” è piuttosto recente.
Abbiamo cercato nel passato il punto di partenza e relativo luogo delle più note rappresentazioni del Santo. Più importante ci sembra, tuttavia, guardare verso il futuro. Lo sviluppo attuale della teologia di san Giuseppe, che la Redemptoris custos incentra sui “misteri della vita di Cristo”, richiede che le rappresentazioni moderne del Santo non solo restituiscano a san Giuseppe l’età giovanile che gli conviene, ma che interpretino gli episodi evangelici alla luce del loro significato cristologico, facendo emergere la missione di san Giuseppe “ministro della salvezza”.
Nei “misteri” della vita di Cristo si devono includere la S. Famiglia e il matrimonio di Maria e Giuseppe, dal quale essa scaturisce; va recuperato l’episodio del censimento a Betlemme, il cui “mistero” richiede la presenza del Bambino; nella presentazione di Gesù al tempio, Giuseppe non è un semplice portatore di colombe, ma il responsabile dell’offerta del “primogenito”; l’episodio del “ritorno” dall’Egitto va privilegiato, perché teologicamente più significativo di quello della “fuga”. Il “bastone” si può conservare, ma deve essere “fiorito”, per evidenziare non la vecchiaia, ma l’elezione.
ICONOGRAFIA RARA
Liberazione dal Limbo
Raramente si incontra la liberazione di san Giuseppe dal Limbo. Nel quadro conservato ad Huichapan (Messico), l’ignoto autore distingue accuratamente Maria, che colloca isolatamente a sinistra di chi guarda, considerandola già assunta in Cielo fra gli angeli. A destra colloca, invece, i Santi liberati dal Signore risorto. Il primo tra questi, ben contrassegnato dal bastone fiorito, è proprio san Giuseppe.
L’assunzione di san Giuseppe
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Insigni teologi, compresi Sommi Pontefici e Santi, ritengono che san Giuseppe sia stato assunto in Cielo al momento della risurrezione di Gesù. L’anonimo pittore raffigura questa pia credenza.
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Traslazione della santa Casa
Traslazione della Santa Casa. Copia della Traslazione dipinta da G.B.Tiepolo (sec. XVIII) nel soffitto della chiesa degli Scalzi di Venezia, distrutta dai bombardamenti del 1915. La copia si trova nel Museo Pinacoteca di Loreto. Sulla Santa Casa è presente (caso unico nei dipinti della Traslazione) anche san Giuseppe. Considerando la Santa Casa come un’imbarcazione in navigazione, la Madonna occupa il posto di prua con il Bambino in braccio, mentre san Giuseppe, seduto a poppa, sembra maneggiare il suo bastone come un timone che assicura la direzione. Insomma, san Giuseppe, “padrone” di casa, deve necessariamente restare con la sua famiglia.
Il compianto
Da segnalare è la presenza di san Giuseppe in dipinti di Compianto su Cristo morto. Nella chiesa di Sant’Alessandro in Colonna, Bergamo, opera di Lorenzo Lotto (1517 circa), S. Giuseppe è la prima figura a destra; quasi contemporaneo è il compianto di Rocco Marconi (+ 1529), conservato nel Museo Accademia di Venezia. Nella Basilica di S. Rufillo a Forlimpopoli, opera della Scuola del Cignani, sec. XVIII, è rappresentato S. Giuseppe che bacia il piede di Gesù. Un affresco di ambito lombardo (provincia di Sondrio), risalente a dopo il 1790, raffigura “Cristo in Pietà” sorretto dalla Madonna, sant’Antonio, san Giuseppe, san Domenico e santo Stefano. Da segnalare due interessanti opere di Jacopo Carucci (Pontormo), nelle quali san Giuseppe appare grandemente coinvolto nella sorte dolorosa di Gesù.
Da notare la presenza del libro nelle mani di san Giuseppe. Vedi, in seguito: San Giuseppe e il libro.
Nella descrizione della “Pala Pucci”, in Wikipedia, si legge: “Giovanni e Giuseppe sono investiti dalla luce più forte, che allude allo Spirito Santo, che ispira le loro azioni e la scrittura del Vangelo. La preminenza di Giuseppe è da leggere in relazione alle dispute teologiche di quegli anni, e in questo senso anche la presenza di san Jacobo è emblematica, poiché nel suo vangelo apocrifo (il Protovangelo di Giacomo) parla dell’infanzia di Cristo e loda la cura paterna di san Giuseppe”.
Ostensione della Sindone
B. Caravoglia, Pala d’altare (1660-70), Cappella della santa Sindone in Grosso Canavese (Torino): la santa Sindone è presentata dalla Madonna, S. Giuseppe e S. Giovanni Battista.
Alle sorgenti dell’Amore Divino
San Giuseppe e l’Eucarestia
San Giuseppe contempla e sorregge il Bambino, che lo trattiene con entrambe le braccia.
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Esposizioni artistiche
Una grande esposizione su “San Giuseppe nell’arte spagnola” fu aperta a Madrid dal 20 gennaio al 30 aprile 1972 nel Museo Español de Arte Contemporáneo. Preparata dal “Centro spagnolo di ricerche giuseppine” con la collaborazione della Direzione generale delle Belle Arti e dei competenti organi governativi, l’esposizione distribuì in dodici sale opere d’arte provenienti da musei statali, collezioni regie del Patrimonio Nazionale, cattedrali, collegiate, chiese e collezionisti privati di ogni parte della Spagna.
In Francia una esposizione consacrata a “San Giuseppe sconosciuto” fu allestita dal 15 luglio al 15 ottobre 1977 nella Sala capitolare dell’abbazia di Clairmont, in Mayenne. Risultato di un interessante lavoro di ricerca, questa esposizione offriva una panoramica d’arte, articolata nello spazio e nel tempo.
Un’altra esposizione fu preparata a Bruges, dal 21 febbraio al 1° marzo 1981, dal gruppo “Amici di san Giuseppe”.
Mentre il Centro di Montréal ha la sua esposizione giuseppina permanente, altri Centri hanno messo a punto delle mostre in occasione di Simposi Internazionali, privilegiando la scultura, a Città del Messico, nel 1989, e le stampe, a Roma, nel 1993.
Ad Asti, in occasione del Simposio Nazionale ad Asti e Torino su San Giuseppe (1-2 Maggio 2015), è stata allestita una mostra “San Giuseppe nell’Astigiano”, curata da Debora Ferro e Stefano Zecchino.
Una bella raccolta iconografica su san Giuseppe (St. Joseph in Art) si può trovare in: http://osjusa.org/st.joseph/ Vedi: St. Joseph-Oblates of St. Joseph.
Il culto di S. Giuseppe nei santini (Stefania Colafranceschi)
Esposizioni e collezioni “minori”, ma non meno interessanti, riguardano i “santini” o “immaginette”. Se ne occupa l’UMCIS (Unione Mondiale Collezionisti Immaginette Sacre), alla quale aderisce in Italia l’AICIS (Associazione Italiana Collezionisti Immaginette Sacre), Via Denza 23, Roma.
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Un’attenzione particolare meritano anche le “edicole” e i “capitelli”, sparsi un po’ ovunque sulle pareti della case, ai crocicchi delle vie e all’aperto nelle campagne. Sono la testimonianza della pietà di una persona, famiglia o collettività.
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Non meno importanti sono i “presepi”, nei quali si esprime il genio e la cultura delle singole regioni e popoli. La figura di san Giuseppe ne è parte integrante.
PRESEPIO ARTISTICO DI SEGUSINO (TV) (Amici del Presepio)
ICONOGRAFIA DEVOZIONALE IN ITALIA (Stefania Colafranceschi) ICONOGRAFIA DI S. GIUSEPPE ARTIGIANO (Stefania Colafranceschi) LA FAMIGLIA E L’ICONOGRAFIA GIUSEPPINA (Rosario Jurlaro) SANCTUS JOSEPH, NUTRITOR DOMINI (Carolyn C. Wilson) .
Rilettura Patristica di alcune opere classiche
L’ICONA DELLA NATIVITA’ DELLA SCUOLA RUSSA
E’ inutile parlare di “nuova evangelizzazione” se tutto deve continuare come prima, soprattutto per quanto riguarda san Giuseppe, il quale a motivo del suo ruolo nel mistero dell’incarnazione e della redenzione deve finalmente occupare il suo giusto posto nella teologia e nella catechesi. Gli studi circa la sua figura e missione nella vita di Cristo e della Chiesa hanno fatto grandi progressi, come testimonia e conferma l’Esortazione apostolica “Il Custode del Redentore” di Giovanni Paolo II. Anche se tutto sembra continuare come prima, il “senso della fede” del popolo sente oggi la necessità di una incisiva “presenza” di san Giuseppe nella pastorale della famiglia.
Di qui l’esigenza di conoscere, innanzi tutto, la partecipazione di san Giuseppe nei misteri della vita di Cristo, ma anche di “aggiornare” quelle espressioni iconografiche, nelle quali la sua presenza è erroneamente interpretata o addirittura gravemente “deformata”. Quanto ciò abbia danneggiato la rappresentazione del mistero dell’Incarnazione è facile immaginare!
Poiché in questi ultimi anni è invalsa la moda dell’icona, incomincio con l’attirare l’attenzione proprio su di un noto motivo iconografico presente nelle icone di scuola russa, collegate ad Andrej Rublëv (+1430). La Vergine occupa il centro della composizione, solennemente adagiata, in una grotta, accanto al Bambino in fasce; all’intorno, scene di angeli, magi e pastori. Giuseppe è collocato, invece, nel registro inferiore, in colloquio con un personaggio, identificato con un pastore ovvero Isaia. C’è, tuttavia, chi vede nel personaggio vestito di pelli addirittura il diavolo, intento a insinuare in san Giuseppe dei dubbi sulla verginità di Maria, facendone la rappresentazione del dramma umano della tentazione! Non c’è chi non veda come questa lettura sia facilitata dalla diffusa tesi del “sospetto” quale spiegazione del dubbio di san Giuseppe. Letteratura e arte sono in simbiosi.
Usando il “test della ragionevolezza”, viene da chiedersi: A parte la possibilità che il soggetto “originario” sia stato frainteso nelle sue successive rielaborazioni, è mai possibile che il suo ideatore abbia voluto mettere in scena, proprio in un momento così solenne come quello della Natività, un dubbio sull’origine divina del Salvatore, e per di più a carico di colui che era stato chiamato da Dio ad essere il custode del Mistero e il testimone della verginità di Maria? E’ questo, infatti, il ruolo di san Giuseppe riconosciuto dai Santi Padri fin dai primi secoli.
Gli Inni di Romano il Melode
Quale, dunque, potrebbe essere il significato “originario” della presenza di san Giuseppe nell’icona e, insieme, della scena parallela delle donne che lavano il Bambino? Esiste nella letteratura a monte dell’opera un motivo ispiratore, che ci aiuti a capire il significato “cristologico” dell’opera? Ebbene, sì. Lo troviamo, infatti, già negli Inni di Romano il Melode (cfr. G. Gharib, Ed. Paoline, Roma 1981), vissuto ben mille anni prima, tra il 490 e il 560. Nato ad Emesa di Siria, egli era stato ordinato diacono a Beirut, verso il 515; trasferitosi a Costantinopoli, al tempo degli imperatori Giustino I (510-527) e Giustiniano (527-565), esercitò il suo diaconato presso il santuario detto di Ciro. La sua eccezionale qualità di cantore sacro e di poeta era da lui stesso attribuita ad un intervento straordinario della Madonna, alla quale dedica appunto i suoi migliori poemi e un ricordo continuo in tutte le sue composizioni, che superano il migliaio. Nella liturgia, alla lettura biblica seguiva il kondakion, che era una sorta di omelia catechetica in canto, nella quale l’argomento era talvolta trattato in modo drammatico; tale genere, già adottato in Bisanzio, fu da Romano portato ad un raro livello di perfezione. I numerosi kondakaria, inseriti nei libri liturgici bizantini, per diversi secoli venivano cantati anche alla mensa degli Imperatori. Poiché ne esistono molte edizioni e versioni in varie lingue, va perciò tenuta in conto la possibilità che l’ideatore del nostro quadro li abbia conosciuti.
L’universalità del mistero dell’Incarnazione
Tra queste composizioni, il kondakion composto per la Natività, e indicato indifferentemente per il 25, il 26 dicembre e per la domenica dopo il Natale, potrebbe aver ispirato il nostro artista. L’inno ha come centro di interesse non tanto la nascita di Gesù in se stessa quanto piuttosto il suo significato salvifico universale, espresso nella presenza di Adamo ed Eva, progenitori di tutta l’umanità. Ecco, dunque, il contenuto.
Le singole strofe sviluppano il tema come un dramma: la voce di Maria, che sta cantando una ninna nanna al Bambino (str.1-2), viene udita nell’Ade “dalla donna che invece aveva partorito nei dolori”, Eva, la quale vi scorge “l’annuncio sperato, di una Vergine che mette al mondo il riscatto dalla maledizione” (str.3). Eva ne dà subito l’annuncio al marito: “O Adamo, scuoti il tuo sonno di morte e alzati…; mira l’ignara di nozze, che guarisce la nostra piaga col frutto del suo parto” (str.4). Adamo teme di cedere una seconda volta alla voce lusinghiera della donna, che riesce però a convincerlo: “Il passato è passato, e Cristo, figlio di Maria, ha fatto tutto nuovo… Orsù, vieni, seguimi presso Maria; appena essa ci vedrà, pròstrati ai suoi piedi e subito avrà pietà, la Piena di grazia!” (Str.5-7).
Seguono le suppliche di Adamo ed Eva davanti a Maria: “Eccomi ai tuoi piedi, o Vergine Madre Immacolata e, mio tramite, tutta la mia stirpe ti sta avanti. Non disprezzare i tuoi genitori, poiché il bambino tuo ha rigenerato quanti sono nella corruzione. O figlia, abbi pietà di me invecchiato nell’Ade, Adamo, prima creatura: ascolta il gemito di tuo padre… Vedi i cenci che fabbricò per vestirmi il Serpente; difendi la mia estrema povertà presso colui che hai messo al mondo, o Piena di grazia!”. Anche Eva si unisce nella medesima supplica: “Oh! speranza della mia anima, ascolta anche me, Eva, e allontana la vergogna da colei che generò nei dolori!”. (Str.8-9). Allora “gli occhi di Maria, su Eva e su Adamo, si empirono di lacrime… le sue viscere furono scosse dalla compassione per i parenti. Perciò ella disse loro: ‘Ponete fine ai lamenti; mi farò vostra avvocata presso il Figlio mio… Ho un figlio misericordioso e molto compassionevole… Mettete, dunque, freno alle lacrime, accettate me per vostra mediatrice presso colui che da me è nato, perché l’Autore della gioia è lo stesso Dio generato dall’eterno’” (Str.10-11).
Dopo aver consolato i nostri progenitori, Maria presenta la loro causa al Figlio: “Adamo è venuto presso di me in gemiti amari, e l’addolorata Eva faceva eco ai suoi lamenti. Responsabile di questo loro stato è il Serpente, che li spogliò dell’onore. Essi, perciò, mi supplicano di proteggerli, gridando a me: o Piena di grazia!”. Gesù accoglie le preghiere dell’Immacolata, dicendo: “O Madre, è per causa tua e per mezzo tuo che io li salverò… Sono stretto nelle fasce, per causa di quanti avevano rivestito allora le tuniche di pelle”. Dopo aver rivelato a sua madre tutto quanto dovrà soffrire per l’umanità, conclude: “Tutto questo sopporterò volentieri, e causa di tutto questo è l’amore che ho sempre sentito e che sento tuttora per gli uomini, amore di un Dio che non chiede altro che di poter salvare”. Maria, allora, si affretta ad uscire per annunciare ad Adamo ed Eva la buona novella (Str.12-18).
Dall’Inno all’icona
Come premesso, l’uso liturgico e la conseguente popolarità di questo kondakionpossono avere ispirato all’iniziatore di questa iconografia di sottolineare il significato universale dell’incarnazione attraverso le figure di Adamo ed Eva. Poiché la donna che tiene in braccio il Bambino per lavarlo viene già comunemente identificata senza difficoltà con Eva, non entrerebbe allora nella simmetria della composizione, oltre che nella logica del mistero natalizio, vedere ragionevolmente nel personaggio rivestito di pelli, che si intrattiene con san Giuseppe, lo stesso Adamo, il padre dell’umanità decaduta, che conversa con colui, il quale come sposo ha il ruolo di custodire e testimoniare la verginità di Maria e conseguentemente l’identità divina del Redentore? Con quale coerenza, al contrario, si può accettare che proprio il diavolo possa insinuare dei dubbi nello sposo, san Giuseppe, se il suo matrimonio con Maria era stato voluto da Dio appunto per ingannarlo, come leggiamo nei santi Padri? La Chiesa non invoca, forse, san Giuseppe “Terrore dei demòni”?
Queste semplici riflessioni sembrano sufficienti per ritenere l’Inno di Romano il Melode come fonte ispiratrice della presenza di Adamo accanto a Giuseppe. Essi sono, in definitiva, i due personaggi che nel Vangelo di Luca aprono e chiudono la genealogia di Gesù.
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SAN GIUSEPPE E IL LIBRO
La figura del filosofo
Il titolo “filosofo”, applicato a san Giuseppe, sembrerà strano, ma è la chiave di lettura per comprendere quell’iconografia nella quale egli è rappresentato in atteggiamento dignitoso, assorto e con un libro. A volte lo si vede intento a leggere il libro addirittura con… gli occhiali. La sua fonte letteraria è molto antica, già presente in san Giovanni Crisostomo (+407), patriarca di Costantinopoli.
Trattando la questione delle genealogie e quella della decisione di san Giuseppe riguardante Maria, egli mette in evidenza la sua scrupolosa osservanza delle leggi, riflettendo (philosophabatur) sulle loro prescrizioni non solo per non trasgredirle, ma addirittura per superarle (ultra legem). Era veramente “giusto”! La presenza del verbo “philosophari” e di espressioni corrispondenti, che il Crisostomo userà ripetutamente per sottolineare la saggezza di san Giuseppe (viri philosophia), possono avere ispirato l’iconografia rinascimentale, che lo rappresenta appunto nell’atteggiamento del filosofo, colui che cerca la ragione delle cose, elaborandole nella sua mente come il vero “saggio”.
Ci può aiutare, per analogia, quanto Benedetto XVI scrive nell’Enciclica Spe salviriguardo a Gesù rappresentato appunto come “filosofo”: “La figura di Cristo viene interpretata sugli antichi sarcofaghi soprattutto mediante due immagini: quella del filosofo e quella del pastore. Per filosofia allora, in genere, non si intendeva una difficile disciplina accademica. Il filosofo era piuttosto colui che sapeva insegnare l’arte essenziale: l’arte di essere uomo in modo retto – l’arte di vivere e di morire. Certamente gli uomini già da tempo si erano resi conto che gran parte di coloro che andavano in giro come filosofi, come maestri di vita, erano soltanto dei ciarlatani che con le loro parole si procuravano denaro, mentre sulla vera vita non avevano niente da dire. Tanto più si cercava il vero filosofo che sapesse veramente indicare la via della vita. Verso la fine del terzo secolo incontriamo per la prima volta a Roma, sul sarcofago di un bambino, nel contesto della risurrezione di Lazzaro, la figura di Cristo come del vero filosofo che in una mano tiene il Vangelo e nell’altra il bastone da viandante, proprio del filosofo. Con questo suo bastone Egli vince la morte; il Vangelo porta la verità che i filosofi peregrinanti avevano cercato invano” (n.6).
Quest’immagine del filosofo, contemporanea al Crisostomo e testimoniata per lungo tempo nell’arte dei sarcofaghi, è appunto quella riproposta nell’iconografia di san Giuseppe, dando così un significato anche al libro, che a volte gli viene posto accanto o in mano, come pure al bastone, non necessariamente quello di un vecchio.
Il Crisostomo si ispira a quest’immagine riflettendo sul comportamento di Giuseppe, definito “giusto”. “‘Essendo giusto’, ossia benigno, moderato (benignus, moderatus), ‘volle rimandarla occultamente’. Giuseppe non si limitò a venirle in aiuto solo nel più, ma anche nel meno, come il pudore. Non solo non voleva punirla, ma neppure denunciarla. Hai visto l’uomo saggio (philosophum, philosophon) e libero dalla passione tirannica? Sapete, infatti, quanto grave sia la malattia della gelosia… In questa circostanza non c’era solo un sospetto, la gravidanza era palese. Malgrado ciò, era così libero da questa malattia dell’animo, che non volle causare la minima pena alla Vergine. Siccome, da una parte, la legge non gli permetteva di tenerla in casa e, d’altra parte, denunciarla e portarla in giudizio equivaleva a una condanna a morte, egli non fece né l’una né l’altra cosa, cominciando a regolarsi al di sopra della legge (supra legem)… Giuseppe dimostra, dunque, una grande saggezza (philosophiam): né l’accusò, né la rimproverò, ma pensava solo di dimetterla. In questo stato di cose e in questa situazione complicata venne l’angelo a togliere ogni ansietà”.
Scrutatore delle Scritture
Da dove attinge san Giuseppe la sua “saggezza” nel giudicare gli avvenimenti? Evidentemente nella volontà di Dio, espressa nelle sacre Scritture.
Ancora il Crisostomo non esita a presentare san Giuseppe come un conoscitore delle Scritture, loro “scutatore”, come insegnerà a fare lo stesso Gesù (cf. Gv 5,39). “Ecco, dunque, che l’angelo rimanda Giuseppe ad Isaia, affinché, se svegliandosi, dimenticasse le parole che sta ascoltando, possa ricordarle per mezzo di quelle dei profeti, dei quali faceva il suo nutrimento abituale (in quorum meditatione nutritus fuerat). L’angelo non disse nulla di simile alla moglie (uxori), la quale, essendo giovane, non sarebbe stata ancora a loro conoscenza. Ma ne fece invece l’esposizione al marito in quanto giusto (viro utpote iusto), che mediterebbe i profeti (qui prophetas meditaretur). Aveva detto prima: ‘Maria tua sposa (coniugem tuam)’, ma una volta addotto in causa il profeta, gli parla apertamente della verginità; Giuseppe non si sarebbe rasserenato, udito il nome di Vergine, se prima non l’avesse udito da Isaia. In realtà, la cosa non doveva più stupirlo: udiva dal profeta una cosa familiare per lui che meditava queste cose da molto tempo (sibi haec multo tempore meditanti). E’, dunque, per meglio accreditare la sua parola che l’angelo fa qui presente Isaia. Egli non si ferma qui; è a Dio stesso che fa risalire la sua parola; non disse, infatti, che le parole erano del profeta, ma che erano state pronunciate dal Dio dell’universo. Perciò non disse: ‘affinché si compia la parola di Isaia’, ma bensì ‘ciò che fu detto dal Signore’; la bocca era senza dubbio quella di Isaia, ma l’oracolo aveva una più alta origine. Che cosa dice, dunque, questo oracolo? ‘Ecco che la Vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e lo chiameranno Emmanuele’ (Is 7,14)”.
E’, dunque, proprio perché san Giuseppe aveva continua familiarità con le parole profetiche che, secondo il Crisostomo,
l’angelo rimanda Giuseppe al testo di Is 7,14, a differenza di Maria alla quale l’angelo nulla dice in proposito. Ambrogio, invece, commentando Lc 1,31ss. e facendo ugualmente riferimento a Is 7,14, afferma che Maria aveva letto tali parole e per questo credette, pur non conoscendo il modo della loro attuazione. Anche secondo Teodoto di Ancira (+446), contemporaneo del Crisostomo, la conoscenza delle sacre Scritture non poteva mancare in san Giuseppe, che riceve la Vergine per servire consapevolmente il mistero (mysterio serviens): “E’ allora che egli comprese quanto avevano detto i profeti. Egli ebbe l’intelligenza delle loro profezie: poiché era giusto, aveva l’abitudine di meditare quei testi”.
Di fatto la presenza del libro diverrà prevalente nell’iconografia mariana; quella che rappresenta san Giuseppe con un libro in mano e attento alla lettura ha, tuttavia, la sua giustificazione.
San Giovanni Damasceno (+760c.) riprende il tema del libro arricchendolo di un altro significato: “Oggi il Verbo di Dio, creatore di tutte le cose… fece un libro nuovo, scritto con la lingua di Dio per mezzo della penna dello Spirito. Il quale (libro o tomo) fu consegnato ad un uomo che si intendeva di lettere, ma non lo lesse. Perché Giuseppe non conobbe Maria né la forza (dunamin, grandezza) del suo mistero”. “Giuseppe non capisce il libro (il Verbo di Dio e sua Madre). Perché? Perché non poteva conoscere la dunamin del mistero della sua sposa. Si trattava, infatti, di conoscere la divina maternità di Maria, cosa impossibile senza una particolare rivelazione. E tuttavia, Giuseppe, sapeva leggere, aveva compreso la virtù singolare, ossia la santità della sua sposa”. Di qui la sua perplessità.
Evidenziata la fonte letteraria della iconografia di san Giuseppe con il libro, rimane ora da studiare come essa si sia sviluppata proprio nel Rinascimento, dove appare con una certa frequenza non dovuta certamente a causalità o equivoco.
Serie di immagini relative al tema di S. Giuseppe con il libro:
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IL TRITTICO
DI MERODE
Nell’iconografia giuseppina occupa un posto significativo il “Trittico di Mérode” (ca 1428). Il pannello centrale, che raffigura l‘Annunciazione, e l’ala di sinistra, dove è presente san Giuseppe, sono considerati il capolavoro di Robert Campin (ca 1375-1445). L’ala di sinistra, attribuita a Rogier van der Weyden, raffigura, invece, il commendatario del trittico e la sua seconda moglie. Il trittico, conservato oggi a New York, nella Collezione dei Conventi, è conosciuto come “Trittico di Mérode”, dal nome dell’ultima famiglia proprietaria.
San Giuseppe è rappresentato nel suo laboratorio, vestito di colore bruno e seduto su una bella panca di legno. Lo affianca un banco sul quale sono deposti alcuni strumenti, mentre altri sono sparsi sul pavimento. Il Santo, intento a trapanare una tavoletta di legno, è rivolto verso gli spettatori. L’attività di Giuseppe, quella di falegname invece di quella di carpentiere, dipende probabilmente dal cognome (Schrinmechers) della moglie del commendatario. Il laboratorio è luminosamente aperto verso una piazza, delimitata da case e animata da persone.
Gli oggetti sparsi sul banco di lavoro richiamano sotto vari aspetti la passione del Signore: la croce (in alto), la tenaglia, il martello e soprattutto numerosi chiodi. L’attenzione è attirata, tuttavia, dalla strana presenza di una piccola “trappola per topi”. I commentatori vi vedono un riferimento a sant’Agostino, il quale considera l’Incarnazione come “muscipula diaboli”, ossia una “trappola” per il diavolo. Nascondendo sotto la natura umana quella divina, Gesù aveva ingannato in tal modo il diavolo, che ignorava così la sua vera identità; il diavolo, accanendosi contro l’umanità di Gesù, veniva a realizzare in pratica la volontà di Dio di salvare l’umanità attraverso la morte di Cristo.
Il collegamento di sant’Agostino non è certamente trascurabile. Tuttavia, l’imponente risalto della figura di san Giuseppe nel pannello a lui destinato e soprattutto il duplice collegamento del nostro personaggio sia con il quadro centrale dell’Annunciazione, ossia il mistero dell’Incarnazione, e sia con il contesto matrimoniale, chiaramente indicato nel pannello di sinistra e all’origine del trittico, suggeriscono una lettura più approfondita, che ci guida alla conoscenza della cooperazione di san Giuseppe al mistero delle Redenzione.
Giuseppe, in realtà, non sta lavorando direttamente alla costruzione di una trappola; egli sta perforando un pezzo di tavola, con lo scopo di farne qualcosa che sembra destinata a nascondere, a difendere, una specie di “grata”, insomma, simile a quella che fa da parascintille di fronte al caminetto della scena centrale; la stessa idea di “grata” si può leggere anche nell’ornamento della panca usata da san Giuseppe e in quello del pancone collocato dietro la Vergine; nella finestra della camera dell’Annunciazione è presente lo stesso motivo. Il collegamento tra le due “stanze”, quella di Maria e quella di Giuseppe è intenzionale, tenuto conto anche del chiaro significato della passione contenuto nella minuscola figura di Gesù (dietro le ali dell’angelo, verso le due finestre rotonde) adagiato sulla croce. Appare così evidente che l’autore vuole collegare al “clamore” del mistero dell’Incarnazione il suo umano “silenzio”, tema tanto caro ai Santi Padri. Il piano della Redenzione, infatti, si è realizzato all’apparenza “in modo umano”, lasciando alla fede il ruolo di poter “vedere” in esso l’opera di Dio.
In altre parole, durante la sua vita terrena Gesù ha voluto nascondere la sua divinità, facendosi considerare uomo tra gli uomini. I Vangeli, che sono la testimonianza della predicazione apostolica, sottolineano ampiamente questo aspetto: Gesù è “il figlio di Giuseppe, da Nazaret” (Gv 1,45; Lc 4,22; Mt 13,55); “Non è costui il figlio di Giuseppe? Di costui noi conosciamo il padre e la madre!” (Gv 6,42). Lo stesso Matteo, il quale dice chiaramente che questo era motivo di scandalo per chi lo conosceva (cf. Mt 13,57), è l’evangelista che sottolinea maggiormente “il matrimonio” di Maria con Giuseppe, necessario per inserire giuridicamente Gesù nella genealogia di Davide. Evidentemente questa situazione comprometteva la verginità di Maria, ma salvaguardava l’onore di Gesù e di sua Madre di fronte ai suoi contemporanei; lo stesso Diavolo era tratto in inganno. Il matrimonio di Giuseppe con Maria è stato di fatto il “velo (velamen)”, l’equivalente di “grata”, voluto da Dio per nascondere il mistero dell’Incarnazione.
Il Trittico mette in relazione il matrimonio del committente con quello di Maria e Giuseppe, ma ne sottolinea la peculiarità. Benché “separatamente”, Maria e Giuseppe convivono sotto lo stesso tetto, dando la convinzione alla “piazza”, ossia alla gente, di essere coniugi come gli altri. E’ questa la “trappola” esposta al balcone, ben all’aperto su apposito sostegno. A ben guardare, l’oggetto esposto non assomiglia tanto ad una trappola per topi, come quella presente sul banco di lavoro, quanto piuttosto ad un divano-letto matrimoniale: tutti dovevano pensare ad un matrimonio “normale”.
I Santi Padri, come accennato, e in particolare san Giovanni Crisostomo, si sono soffermati sul dato di fatto che “Giuseppe era considerato essere il marito (vir) di Maria. Molti veli (velamina), infatti, erano posti perché il parto della Vergine fosse occultato. Giovanni afferma che ‘neppure i suoi fratelli credevano in lui’ (7,5); tuttavia, costoro che prima non avevano creduto, sono poi stati ammirevoli e grandi”.
La paternità di Giuseppe fa parte del piano dell’incarnazione. Alla mormorazione: “Non è costui il figlio di Giuseppe?”, il Crisostomo risponde: “E’ chiaro che essi non conoscevano ancora la sua mirabile generazione. Per questo lo considerano ancora figlio di Giuseppe. E tuttavia Gesù non li riprende né dice: ‘Non sono figlio di Giuseppe’; non perché fosse figlio di Giuseppe, ma perché non potevano ancora capire la sua mirabile nascita (admirabilem illud partum). Se non potevano ancora capire la sua nascita secondo la carne, molto meno quella ineffabile e superiore. Se non rivelò quello che era più umile, molto meno avrebbe detto le altre cose. Certo era per loro un ostacolo che fosse nato da un padre umile (ex vili patre); tuttavia non rivelò, affinché, togliendo un ostacolo, non ne sorgesse un altro. Ma che cosa risponde a quei mormoratori? ‘Nessuno può venire a me, se il Padre, che mi ha mandato, non lo attira’ (Gv 6,44)”. Era, dunque, nella volontà di Dio che la paternità di Giuseppe nascondesse quella di Dio. Si trattava di un “velamen” necessario all’incarnazione: “Ammira soprattutto questo, che il Figlio, genuino Figlio di Dio esistente senza principio, sopportò di sentirsi chiamare figlio di Davide, per farti figlio di Dio; ha sopportato di avere per padre un servo (passus est se patrem habere servum) per dare a te servo il Signore”.
Alla domanda: “Perché fare la genealogia di Giuseppe, che non ha concorso in nulla alla generazione?”, ecco ancora la risposta del Crisostomo: “Abbiamo già trattato un motivo; è importante ora trattare il secondo, più mistico ed arcano. Quale? (L’evangelista) non voleva far conoscere ai Giudei, al tempo della nascita, che il Cristo nasceva dalla Vergine”. Gesù stesso aveva nascosto la sua vera identità in conformità a una grande e mirabile economia (magna quadam et mirabili usus oeconomia). “Si voleva difendere la Vergine, liberandola da ogni odioso sospetto. Se, infatti, i giudei avessero saputo ciò dall’inizio, interpretando malignamente la cosa avrebbero lapidato la Vergine, condannandola come adultera… Se, infatti, dopo tanti miracoli si ostinavano a chiamarlo figlio di Giuseppe, come avrebbero potuto credere la sua nascita da una vergine prima che questi miracoli fossero compiuti? Ecco perché viene fatta la genealogia di Giuseppe, che sposa la Vergine. Ma lo stesso Giuseppe, uomo giusto e ammirabile (vir iustus et admirandus), ebbe bisogno di molte prove per accettare quanto accadeva: l’angelo, la visione nel sonno, la testimonianza dei profeti. Come, allora, i giudei, perversi e corrotti, e a lui ostili, avrebbero accettato tale credenza?”. Anche gli apostoli tacciono all’inizio su questo mistero, “neppure la madre ha osato proclamarlo. Vedi, infatti, che cosa gli dice la Vergine: ‘Ecce ego et pater tuus quaerebamus te’ (Lc 2,48). Infatti, se l’avessero sospettato, non l’avrebbero neppure ritenuto figlio di Davide e da questa prima conseguenza ne sarebbero derivate altre. Anche gli angeli non ne parlano, se non a Maria e a Giuseppe; quando annunziano ai pastori la buona novella, non ne fanno cenno”. Giacomo di Sarug (+521) sintetizza: “Fu velo Giuseppe tra lei e il figlio suo, fin tanto che volle il Figlio di Dio rivelar se stesso”.
Lo stesso argomento ricorre in san Pietro Crisologo (+450) nel commento alla strage degli innnocenti: “Se già al Cristo neonato fanno queste cose, cosa non avrebbe fatto in seguito tanta crudeltà al Cristo? Ecco perché è provveduto uno sposo, è provveduto un aspetto di matrimonio (maritalis species) per nascondere il miracolo, per celare il segno, per velare il parto della Vergine, per evitare il delitto, per eludere le insidie del violento. Benché destinato alla morte, se Gesù fosse stato ucciso nel seno, la morte prematura avrebbe rubato ciò che era venuto per la nostra salvezza”.
Una corretta lettura dell’arte “sacra” non può fare a meno della letteratura che l’ha ispirata. Dove ciò si può verificare, molto spesso i quadri ritrovano i loro originari colori.
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